E’ così che esordisce il nipote di un vecchio nobile siracusano, il principe Fabrizio Salina, parlando con lo zio dei vantaggi che la fusione con la classe borghese in ascesa avrebbe apportato all’antica classe aristocratica. Il nipote Tancredi Falconieri, personaggio scaltro e astuto, ha capito infatti che i nuovi borghesi non vogliono affatto distruggere la classe aristrocratica isolana, ma vogliono al contrario prendere il loro posto e godere quindi dei loro stessi privilegi. Il ragazzo, quindi, adotterà la tattica vincente in un tempo di cambiamenti: si inserirà nel nuovo movimento per volgerlo, a sua volta, in favore degli individui della sua classe. In tutto ciò il principe Fabrizio, pur non accondiscendo mai in maniera diretta con il nipote, osserverà il mutare dei tempi con quello sguardo un po’ scettico un po’ acquiescente di chi ha capito come funziona il mondo ma non può e non vuole far nulla per cambiarlo, ma si limita a lasciarsi andare verso un lento e silenzioso declino.
‘Il Gattopardo‘: è questo titolo del celebre e unico romanzo di Tomasi di Lampedusa, pubblicato nel 1958 dalla Feltrinelli su consiglio dello scrittore Giorgio Bassani dopo esser stato rifiutato da ben due case editrici e divenuto oggi uno dei classici della letteratura italiana.
Il romanzo ruota attorno al personaggio del principe Fabrizio Salina analizzando la Sicilia all’ epoca del tramonto borbonico dall’impresa dei mille di Garibaldi alla prima decade del Novecento. L’ascesa della classe borghese che vuole imporsi come nuova classe dominante è resa nei suoi più minuti intrighi e dettagli grazie al nipote di Fabrizio, Tancredi, che, contraendo affari e sposandosi con la figlia del sindaco del paese di Donnafugata, rappresenta il compromesso tra la vecchia e la nuova classe dominante all’indomani dello sbarco garibaldino.
Tuttavia, non è il cambiamento il leit motiv di questa trama, bensì l’incapacità di cambiare il carattere e l’atteggiamento dei Siciliani nonostante le novità apparenti.
Questa caratteristica della Sicilia ci è data attraverso gli occhi di don Fabrizio il quale, con un atteggiamento stoico, inerte e rassegnato della realtà, ci mostra la vera indole isolana.
Il principe, infatti, rifiuterà l’incarico di senatore offertogli dal segretario della prefettura Chevalley spiegando che ‘il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare” e che ‘ sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee… nessuna germogliata da noi stessi’. ‘Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare’, dirà Fabrizio; secondo il principe, infatti, ‘i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che … la loro vanità è più forte della loro miseria’ e che ‘ calpestati da una decina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi.’
Il romanzo, tra lo storico e il decadente, ci offre quell’immagine di una Sicilia immobile come il suo paesaggio, crudele e violento in estate e in inverno, senza via di mezzo, eccessivo, ma dannatamente bello e consapevole del suo fascino nel quale finisce per crogiolarsi con quella vanità e quell’orgoglio che altro non sono che cecità nascosta e volutamente ignorata.
Questo libro è un breve e piacevole ritratto di una Sicilia in bilico tra l’orlo del declino e il salto verso il cambiamento visto dagli occhi di chi, come il nostro Fabrizio, appartiene ‘ad una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due.’
Lo consiglio vivamente perché, sarà che sono tre anni che lo volevo leggere, è una lettura scorrevole e coinvolgente.
P.S.: Se volete farvi venire l’acquolina in bocca e gli occhi di fuori andate a pagina 228: una vera e propria ode alla cultura gastronomica siciliana con uno sguardo particolare ai suoi dolci e dessert!